Tre colori - Film blu (2024)

Recensione di Emanuele Sacchi
lunedì 11 settembre 2023

In seguito a un terribile incidente d'auto Julie perde il marito Patrice, compositore musicale di fama internazionale, e la figlia Anna di sette anni. Dopo aver tentato il suicidio, l'elaborazione del dolore porta Julie a concedersi sessualmente al collega di Patrice, Olivier, da sempre innamorato di lei. Ma i sensi di colpa e la disperazione hanno la meglio e Julie si ritira nel solitario anonimato in un quartiere periferico di Parigi. Sarà una rivelazione sconvolgente a infonderle il coraggio per ricominciare a vivere e ad accettare il destino.

Film blu è il primo capitolo di una trilogia, Tre colori, dedicata da Krzysztof Kieslowski alla bandiera francese e al suo triplice significato, legato ai valori della Rivoluzione di Libertà, Uguaglianza e Fraternità.

Il blu rappresenta la libertà, e il regista polacco sceglie il più traumatico degli eventi per approfondire l'ambivalenza del termine. Julie è sì libera di ricominciare a vivere, come lo è di rinunciarci. La tragedia occorsa squassa la sua esistenza e ne riordina forzatamente le priorità, sotto ogni punto di vista. Intorno a lei i suoi cari piangono ed esternano commozione, dove Julie ingaggia un muto conflitto autodistruttivo con sè stessa e con i suoi pensieri, pervasi dal senso di colpa e incapaci di afferrare il senso di quanto accaduto.

Nel cinema di Kieslowski, da Il decalogo fino alla trilogia che ne chiuderà la carriera, caso e destino recitano un ruolo fondamentale e il regista continua a studiarne le implicazioni, tanto sul piano religioso e cattolico - interrogandosi sull'oscuro disegno della Provvidenza - quanto su quello laico, qui incarnato dagli ideali della Rivoluzione francese. A riportare Julie alla vita saranno tre elementi che oscillano tra profano e sacro: la lussuria (rappresentata dalla vicina del piano di sotto), l'amore puro (il sentimento disinteressato e discreto di Olivier) e una annunciazione (la donna incinta). Ma la riflessione metafisica si accompagna sempre a quella privata e terrena, che Kieslowski studia attraverso l'elaborazione di un trauma ricco di elementi simbolici e riflessivi.

Benché un'inquadratura chiarisca la natura meccanica del guasto che determina l'incidente mortale, in un certo senso l'artista, condotto al limite delle propria capacità, si stava già consumando, avvicinandosi inesorabilmente alla morte. Lo capiamo scoprendo sempre più informazioni sulla sinfonia a cui Patrice stava lavorando: Concerto per l'unificazione dell'Europa, un'opera ambiziosa e altisonante per dodici elementi, uno per ogni paese dell'Unione Europea di allora (il 1993). È chiaro il parallelismo tra quest'opera sul piano diegetico e quella che la contiene, ovvero la stessa trilogia, e quindi come Kieslowski stia giocando con se stesso, sovrapponendosi al personaggio maschile, come farà in tutti e tre i capitoli di Tre colori. La sorte di Patrice è una delle sorti possibili di Kieslowski, o forse un suo incubo ricorrente?

Discernere tra piano allegorico e piano narrativo è difficile, se non impossibile, nel cinema del regista polacco e Film blu è in questo senso esemplare, per la sua capacità di trasformarsi dallo stile asciutto, deprivato di emotività, della prima parte alla magniloquenza di un epilogo ai limiti del kitsch, che lavora - volutamente - per mezzo di immagini e accostamenti eclatanti e di sicuro impatto. Sembrano due stili diversi, due linguaggi che non possono comunicare, ma nel disegno di Kieslowski questo ossimoro assume un preciso significato.

L'impossibilità di leggere univocamente quel che accade nella realtà conduce a interpretazioni conflittuali, laiche o religiose, di fatalismo o predeterminazione. Non esistono interpretazioni univoche, solo percorsi personali di elaborazione di una verità. Ad unire i segmenti eterogenei del film è la dominante cromatica: il blu, ovviamente, presente in confezioni di caramelle, sui lampadari e in piscina. Il blu che perseguita Julie, ricordandole i feticci di un'esistenza brutalmente stroncata, e che accompagna la mancanza di calore della sua nuova vita, emotivamente raggelata. Straordinario il lavoro di sottrazione di Juliette Binoche (insignita della Coppa Volpi), un involucro svuotato di ogni emozione, pedinato e scrutato da una macchina da presa che ne asseconda gli sbalzi umorali anche sul piano stilistico.

L'incipit è infatti caratterizzato da primissimi piani, spesso in grandangolo, e da soggettive dal letto di ospedale, che sottolineano la sensazione di straniamento di Julie, sola e incomprensibilmente viva. Di contro, nel finale, la regia si fa più partecipe e avvolgente, cercando di ricollocare Julie nel mondo e di testimoniare la sua accettazione di una nuova realtà. Leone d'oro ex aequo alla Mostra di Venezia.

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Una sinfonia che intreccia vita e morte.

In un incidente d'auto Julie perde il marito e la bambina ed è distrutta dal dolore. Il marito era uno dei massimi compositori contemporanei e stava per condurre a termine una sinfonia per l'Europa. Julie dà ordine di vendere il castello in cui abitavano e si libera di tutto il resto, compresi i giocattoli della sua adorata bambina. Si risarcisce psicologicamente portandosi a letto l'assistente del marito, che l'ha sempre amata, poi va a vivere a Parigi, sola in un appartamento. La sua vita è fatta di niente, letteralmente. Arriva a distruggere la composizione non finita del marito, ma per fortuna c'è chi ne ha fatto una copia. Trova nel ripostiglio di casa una nidiata di topi appena nati, e prima non fa niente, poi prende un gatto per eliminarli. Alla madre malata dice: "Non voglio avere proprietà né ricordi, sono trappole". Cammina, guarda, ogni tanto nuota. E a volte, durante la giornata, viene aggredita da una visione blu e da una forte musica di archi. Blu era la stanzetta di sua figlia. Viene a sapere che il marito aveva una giovane amante. La conosce. La ragazza è incinta. Julie annulla la vendita del castello per accogliere quei nuovi "legami". Quando l'ex assistente mette mano all'"incompiuta", Julie non riesce a rimanerne distaccata e porta a termine lei stessa la sinfonia. Una frase del coro recita: "... senza amore non sono niente...". La donna ritorna dunque nella vita. Non si può fare niente. Premiato a Venezia nel '93 col Leone d'Oro a pari merito con America oggi di Robert Altman.

Parabola esistenziale alla Kieslowski.

Recensione di Annarita Mazzucca

Prima pellicola della celebre trilogia dedicata dal regista polacco Krzysztof Kielowski ai tre colori della bandiera francese e, di conseguenza, al motto della rivoluzione francese, "Liberté, Égalité, Fraternité". Il film, che gli valse il Leone d'Oro, ci costringe a un confronto impietoso col paradosso della necessità della protagonista di una sorta di "libertà emotiva" che la spinge a un'elaborazione del lutto singolare: Julie, transita attraverso un dolore asciutto ed estremo, quasi schizofrenico, convincendosi che per ricominciare sia necessario annullare le memorie passate e che l'unico mezzo per redimersi dal dolore sia abdicare all'oggetto della sofferenza. Dapprima frastornata dalle immagini del corteo funebre del marito e della sua bambina che scorrono sulla tv dell'ospedale e dopo un tentativo di suicidio approssimativo divorando un flacone di pillole qualunque, ogni suo atto è votato a eliminare il suo trascorso di madre e moglie (anziché preservare gelosamente le vestigia della sua pargola defunta, divora nevroticamente la caramella della sua bambina ritrovata in borsa, non già per assaporarne il ricordo ma quasi come a cancellarne il ricordo terrestre). Così come la risata dissacrante all'ascolto della testimonianza del ragazzo che aveva involontariamente assistito all'agonia del marito ("Stava raccontando una barzelletta"): tutto in lei sembra volto alla contaminazione e alla vaporizzazione della sua esistenza pre-incidente (si spingerà fino a distruggere l'opera ultima di suo marito, compositore di fama). Lo stato vegetativo emotivo, volontario asilo politico dalla passione, al riparo dalla vita e dallo stesso dolore precipita rovinosamente quando la nostra eroina viene posta di fronte lo specchio irreversibile delle scelte: l'amore di Olivier, amico e collaboratore del marito, la scoperta dell'embrione nel ventre dell'amante di suo marito. Il ritorno alla vita (già suggerito dalle continue immersioni in piscina di Julie, in cui la donna, pare tornare nel rassicurante oblio del liquido amniotico, liberandosi da qualsiasi pressione esercitata dalla forza di gravità terrestre e scivolando nell'apnea emotiva di un non-luogo interiore) viene celebrato nel delicato slancio emotivo della memorabile pagina cinematografica in cui Julie scoprendo l'esistenza di un nido di topolini nello sgabuzzino e, intenerita come fosse in una nursery, li risparmia, compiendo la sua prima scelta dall'inizio della pellicola: la vita.

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